Condividi con

FacebookMySpaceTwitterGoogle BookmarksLinkedinPinterest

Chi c'è online

Abbiamo 261 visitatori e nessun utente online

L'angolo del legale

4.5 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 4.50 (1 Voto)

Quando il comportamento del coniuge rende intollerabile la prosecuzione della convivenza o reca grave pregiudizio alla prole (ad esempio infedele, violento, offensivo, minaccioso, fortemente autoritario, ecc.) o semplicemente quando vi è una crisi insanabile del rapporto coniugale, uno o entrambi i coniugi, possono fare ricorso alla separazione.
La separazione legale (per distinguerla dalla dalla separazione "di fatto", irrilevante giuridicamente) può essere: consensuale (quando c'è l'accordo tra i coniugi in ordine ad es. la misura dell'assegno di mantenimento del coniuge economicamente più debole e per i figli, per le modalità di visita dei figli, per l'assegnazione della casa coniugale, ecc.) o giudiziale (quando non c'è l'accordo tra i coniugi o semplicemente uno dei due non intende separarsi).
La separazione giudiziale può essere, quindi, chiesta anche solo da uno dei due coniugi .
A seguito della separazione, il coniuge economicamente più debole avrà diritto ad un assegno mensile per sè e per i suoi figli.
La casa familiare verrà assegnata generalmente al coniuge a cui verranno affidati i figli.
Decorsi 3 anni dalla sentenza di separazione (giudiziale) o dall'omologa (degli accordi di separazione) entrambi, se sono d'accordo, o uno solo dei coniugi se non vi è accordo, possono chiedere il divorzio, ovvero lo scioglimento del matrimonio civile e tutti e due riacquisteranno lo stato libero e potranno contrarre un nuovo matrimonio!
Per separarsi e per divorziare è necessario farsi assistere da un avvocato.
In proposito, coloro che non hanno reddito possono chiedere di essere ammessi al beneficio dell'assistenza giudiziaria gratuita a spese dello Stato (patrocinio gratuito a spese dello Stato).

 

A cura dell'Avv. Battaglino Myriam

 

 

4.5 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 4.50 (1 Voto)
5 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 5.00 (1 Voto)

IL MOBBING. COMPORTAMENTO OSTILE DEL DATORE DI LAVORO E TUTELA RISARCITORIA.

In tempi recenti la giurisprudenza ha affrontato la questione della tutela del lavoratore in relazione al mobbing. Con il termine “mobbing” si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione e di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisico-psichico e del complesso della sua personalità. In alcuni casi potrebbe trattarsi di una precisa strategia finalizzata all’estromissione del lavoratore dall’azienda (c.d. bossing). Le caratteristiche del mobbing sono: la pluralità di atti, la volontà del datore di lavoro diretta alla persecuzione ed emarginazione del dipendente e la conseguente lesione arrecata al lavoratore, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico. La Corte di Cassazione, con la decisione n. 22858 del 9.09.2008, ha ritenuto che il datore di lavoro possa ritenersi responsabile anche quando, pur in assenza di un suo specifico intento lesivo, il comportamento mobizzante sia posto in essere da altro dipendente. Ciò in quanto il datore di lavoro ha il dovere di reprimere, di prevenire e di scoraggiare tali comportamenti nell’ambito dello svolgimento dell’attività lavorativa. Sul lavoratore grava il solo onere di provare la lesione dell’integrità psico-fisica ed il nesso causale tra l’evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa. L’azione si prescrive entro 10 anni, decorrenti dalla manifestazione del danno e non dall’inizio della vessazione.

Avv. Bruno Colavita

Per approfondimenti: colavitabruno@hotmail.com

 

5 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 5.00 (1 Voto)
0 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 0.00 (0 Voti)

Ai sensi dell’articolo 2094 del Codice Civile “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore”. Pertanto, come previsto dal nostro ordinamento, si potrà parlare di subordinazione tutte le volte in cui il lavoratore è assoggettato chiaramente al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro. Quando, invece, come nel caso del nostro lettore, la prestazione dedotta in contratto è estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, e il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare non risulta, al fine della qualificazione del rapporto come autonomo o subordinato occorre far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore, dedotto anche dalla eventuale concomitanza di altri rapporti di lavoro. Spetta al giudice, infine, accertare il comportamento tenuto dalle parti nell'attuazione del rapporto di lavoro al fine della conseguente qualificazione dello stesso come lavoro autonomo ovvero come lavoro subordinato e la relativa valutazione non è censurabile in cassazione ove correttamente ed adeguatamente motivata (Cassazione 20.1.2011 n. 1238)

Avv. Bruno Colavita



0 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 0.00 (0 Voti)
4.5 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 4.50 (1 Voto)


Il mio datore di lavoro mi ha insultato pesantemente davanti ad altri colleghi a causa di un errore da me commesso nello svolgimento del lavoro. Un richiamo così forte è consentito dalla Legge?

Il datore di lavoro ha il potere di richiamare il proprio dipendente qualora quest’ultimo, nello svolgimento della prestazione lavorativa, non adempia agli obblighi previsti dal contratto. Se il richiamo, però, eseguito da un superiore nei confronti del dipendente davanti ad altri colleghi, sconfina in un insulto si è in presenza del reato di ingiuria. Tale principio è stato di recente chiarito dalla Suprema Corte, la quale ha accolto il ricorso presentato da un dipendente pesantemente insultato dal proprio datore di lavoro. La vicenda processuale riguarda il preside di un istituto scolastiche che, durante una riunione di docenti, si è rivolto in modo inappropriato ad un dipendente e nel seguente modo: “lei dice solo stronzate”. Il ricorrente osserva che l'offesa ricevuta mantiene un significato offensivo, soprattutto perché pronunciato in presenza di altre persone, rivelando in questo modo l'intenzione di umiliarlo. La Corte di Cassazione, richiamandosi alla sentenza n. 34599 del 3 Settembre del 2008, ha ribadito l'importanza del concetto di onore della persona, che attiene al valore delle sue qualità individuali, e di decoro, che concerne il rispetto o il riguardo di cui ciascun essere umano è comunque degno. Quindi la presenza di colleghi di lavoro, con cui il dipendente si rapporta e confronta quotidianamente, costituisce un aggravante. Soprattutto perché il dipendente è stato leso nel proprio ambiente lavorativo ed umano. Nel caso di specie, inoltre, a peggiorare la situazione è stato anche il ruolo dell’offensore, un preside che si è malamente lasciato andare al cospetto di un collegio di educatori, comprovante per i giudici la volontà di umiliare il lavoratore.
Nel caso del nostro lettore, quindi, sembrerebbe configurarsi il reato di ingiuria, essendo stato quest’ultimo insultato dal proprio datore di lavoro in presenza di altri colleghi e nel proprio ambiente lavorativo.

Avv. Bruno Colavita

4.5 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 Valutazione 4.50 (1 Voto)